Non c’è nulla di peggio di un “Ikigai impuro”

Non c’è nulla di peggio di un “Ikigai impuro”



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Oggi vorrei fare una riflessione a seguito di un articolo che il nostro staff ha pubblicato qualche tempo fa sul Kintsugi Blog: un articolo dedicato all’Ikigai.

Per chi non lo sapesse, è una dottrina filosofica di origine giapponese il cui scopo è quello di elencare elementi appartenenti a “quattro cerchi concettuali” (Ciò che si ama/ Ciò in cui si è bravi/Ciò che serve al mondo/ Ciò per cui si può essere pagati) per poi in teoria trovare nella loro intersezione il proprio scopo e la propria missione di vita.

Non credo di avere mai avuto tante risposte via email all’articolo stesso, tutte il cui contenuto era più o meno: “Dateci di più sull’argomento, diteci di più su cosa possiamo fare della nostra vita, perché all’età X non ci è ancora ben chiaro”, laddove questo “X” variava in un intervallo abbastanza ampio.

Chiaro che una risposta perfetta o definitiva a questa domanda può essere incredibilmente complessa, e non è cosa che mi sentirei mai di poter confezionare; proviamo però piuttosto ad arrivare, passo dopo passo, almeno a una verità che possa guidare in parte tutti gli “incerti” lì fuori.

Abbracciare l'imperfezione e il quotidiano
Come prima cosa, mi sentirei di sfidare energicamente l’idea stessa alla base della questione posta, partendo dal principio che come esseri umani “sani” e pronti alle sfide che la realtà ci pone, dobbiamo innanzitutto imparare a convivere serenamente con l’assenza di una direzione precisa. Non del tutto e non definitivamente, ma provate a seguirmi nel ragionamento. Siamo tutti quanti un po’ “ossessionati” dall’idea di avere a tutti i costi uno scopo o una missione nella vita, e sicuramente molto di ciò è dovuto al fatto che quello del “Grande Sogno” da inseguire è un concetto molto “pulito” e appagante, un costrutto che ci consente di essere “spietatamente” concentrati su qualcosa e differenziarlo con chiarezza dal resto; è un naturale separare, come si suol dire, il “segnale” dal rumore. Ma c’è probabilmente anche molto di biologico ed evoluzionistico visto che, nonostante tutto ciò che culturalmente ci siamo “ricamati”, siamo ancora delle “macchine da sopravvivenza”, dei primati che hanno bisogno di un “next goal” chiaro e definito onde poter raccogliere cibo, evitare malattie, trovare riparo e infine perpetuare i propri geni. Successivamente, nei secoli in cui abbiamo man mano plasmato le nostre culture, un impulso così potente non ha potuto che continuare a sedimentarsi nelle nostre storie, vista la ricorrenza del “Viaggio dell’eroe” nelle grandi saghe epiche, le tradizioni mitologiche del “Ritorno a casa”, e principi simili; tutti ruotanti attorno al principio che ogni personaggio, per fare qualcosa di significativo, deve necessariamente portare a termine qualcosa di definitivo e compiuto. Tuttavia qui ci serve far nostro un forse “brusco risveglio”: non siamo più cacciatori-raccoglitori da millenni, e le storie di cui fruiamo non sono che semplificazioni, astrazioni della realtà incredibilmente più complessa con cui dobbiamo avere a che fare. E pertanto, questa complessità ci richiede di lasciar perdere alcuni dei nostri miti e condizionamenti naturali, per cominciare a negoziare ciò di cui abbiamo bisogno con mezzi nuovi, differenti, più strutturati.

“Avere degli obiettivi di vita chiari e ben definiti è un concetto affascinante e radicato nel nostro DNA. Tuttavia, in una società così complessa non può più essere solo questa tutta la storia.”

L'importanza dell'ordine cognitivo
Possiamo quindi innanzitutto sì, anche provare a darci un qualche tipo di direzione, ma dobbiamo essere innanzitutto dinamici, flessibili, ricettivi; dobbiamo imparare a muoverci senza avere necessariamente sempre il disegno “pronto e completo”, pronti a raccogliere i feedback che riceviamo onde mettere insieme almeno “la chiarezza minima necessaria” con cui effettuare il passo successivo. E in parallelo possiamo lavorare, certo, per comprendere cosa desideriamo più dall’esistenza, ma poi dobbiamo effettuare tutto lo sforzo di astrazione necessario perché questa guida sia più simile a una fabula, a un canovaccio da commedia dell’Arte, piuttosto che a un fato eroico di greca memoria. Come diceva Steve Jobs nell’ormai sovra-citato discorso a Stanford insomma, dobbiamo provare a unire i puntini non prima, in un improbabile sforzo di previsione, ma dopo, nel nostro avviare un percorso, girarci indietro e dar significato alla struttura che abbiamo saputo edificare nonostante gli arresti improvvisi, le difficoltà, le deviazioni, le incognite.
Anche perché, al di là di tutti questi discorsi, la verità empirica è una, ed è in realtà più confortante di quanto si possa pensare: ogniqualvolta la nostra esperienza quotidiana è pura immersione in ciò che viviamo, la nostra “spasmodica domanda” di preventivo significato magicamente si riduce, spesso fino a svanire. Questo accade sfortunatamente anche e soprattutto quando questa immersione è dovuta a condizioni di profondo disagio (paesi in guerra, o in condizioni di estrema povertà), e non a caso tutto questo desiderio di senso e significato tende a emergere per lo più in società caratterizzate da tempo libero e benessere; il punto qui tuttavia, senza necessariamente ricercare soluzioni nel rinunciare a tutto ciò che si ha, è che se c’è un “segreto” per mitigare questa ansia del “dover trovare a tutti i costi la propria missione”, è in quello che lo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi ha chiamato “Flow”; ossia in un percepire l’esistenza come flusso in cui immergersi più che qualcosa verso cui proiettarsi. Attenzione inoltre qui all’espressione utilizzata: flusso in cui immergersi più che qualcosa verso cui proiettarsi. Il che sottolinea, ancora una volta, la necessità di un sottile equilibrio in cui sia una parte a gestire la maggior parte dei giochi, pur senza negare o rimuovere completamente l’altra.

“La via la si può trovare nel sofisticato equilibrio tra il dimenticarsi della stessa e il costruire, man mano, un canovaccio all’interno del quale sia gradevole sperimentare.”

Accettare la parzialità e le incognite
E qui potrebbe dunque sorgere naturale una domanda sul come ci si possa immergere in una quotidianità più fatta di “Flow”, e meno domande. E nonostante ciò che molti fuffa-guru potrebbero provare a professare, la risposta non è semplice e anche qui, tutto quello che possiamo fornire è un canovaccio. Molto parte sicuramente dal provare a mettere da parte il sogno di una “vita ideale una volta raggiunto questo o quello” e dall’ancora più malato concetto secondo cui siamo “dei fallimenti perché non siamo riusciti ancora a farla nostra”. L’esistenza, e questo sarà banalissimo ma a volte proprio non riesce a entrarci in testa, è necessariamente e per tutti un insieme di difettosità, amarezze e momenti sconvenienti; scartare un percorso, un obiettivo, uno stato delle cose perché continuano a esserci delle amarezze vuol dire ritagliarsi un inferno di fughe continue. L’idea che il paradiso sarà sempre in un’altra strada è affascinante perché è alla base del nostro stesso design biologico (la storia dell’erba del vicino non a caso sopravvive nei detti popolari attraverso i secoli). L’importante è tuttavia è usare questo propellente psicologico per ciò che è: per un semplice carburante, un potentissimo micro-inganno a fin di bene. Qualcosa che ci sottoponiamo innanzitutto per muoverci sì, ma verso qualcosa che andremo man mano rifinendo, senza mai troppo credere veramente al fascino del distante, dell’alieno, dell’esotico; e soprattutto, senza rinnegare mai del tutto il valore di ciò che abbiamo solo perché troppo facile, accessibile, quotidiano. Il che d’altronde si ricollega molto efficacemente a quanto visto qualche riga fa: non tutte le verità ci saranno chiare fin dall’inizio e non tutte le incognite ci verranno svelate, e accettare pertanto la natura profondamente sperimentale dei nostri percorsi, imparando a muoversi per iterare questo ciclo di sperimentazione e feedback il più frequentemente possibile, è uno dei “motori fondamentali” con cui uscire da questa continua ossessione per lo scopo. E’ uno dei mezzi concettuali più potenti con cui imparare a vivere più naturalmente nel “flow" quotidiano delle nostre giornate.

“Possiamo anche usare il mito del Grande Sogno se ciò ci aiuta a muoverci. L’importante è poi prendere atto, ogniqualvolta questo mito mostri le sue debolezze, della sua natura di favola, e ricordarci che tutto sta nell’allenarsi a trarre valore e benessere soprattutto dalle imperfezioni del quotidiano.”

Non a caso gran parte degli studi scientifici attendibili sulla felicità e soddisfazione umana sembrerebbero ripetere continuamente come questi fattori siano in un provare a lavorare efficacemente con le alternative che ci troviamo sotto mano piuttosto che cercarne sempre di nuove; nell’impegno dato dal perseverare su una strada nonostante gli ostacoli, e mantenendo un senso di gratitudine per ciò che di buono c’è in essa. L’essere continuamente tentati dal tornare indietro, darsi delle alternative e tentare qualcosa di diverso, invece, non può che essere una strada per costruirsi un inferno personale.

“La felicità spesso è una ferma decisione di smettere di considerare le alternative, per quanto ciò possa sembrarci inizialmente difficile.”

Ovvio che questo va bilanciato con l’idea che certe strade “proprio non funzioneranno”, e quindi andranno abbandonate, ma questo ci ricollega al punto successivo: al raggiungere una “necessaria lucidità minima” con cui prendere decisioni del genere. E’ infatti sempre questione di fare, come Csikszentmihalyi stesso suggeriva nel suo libro, ordine nella nostra mente in modo da ridurre sempre più ogni giorno la cosiddetta “entropia cognitiva”, quel “caos” nei nostri percorsi cognitivi fonte primaria di gran parte delle nostre ansie, sofferenze, “incoerenze” e, direi, persino della maggioranza dei percorsi di auto-miglioramento falliti e lasciati e metà. Non saprei quante volte viene infatti sottostimata l’importanza di lavorare, prima di ogni altra cosa, su sé stessi con strumenti validi e scientifici come journaling, meditazione, o anche terapia con un professionista qualificato; del dipanare con metodo e struttura la matassa narrativa della propria vita, finché non si sostituisce almeno parte di questo disordine, di questi dubbi, di questa confusione con una maggiore chiarezza su chi, dove, cosa siamo, pensiamo, sentiamo, e perché lo facciamo. E così solo dopo possiamo pensare di dedicarci all’ “esercizietto scritto”, al praticare l’Ikigai, o al redarre la lista dei nostri "valori fondamentali” onde trovare il nostro sogno, la nostra missione. Che senso avrebbe, d’altronde, rispondere alla domanda “Cosa ti rende veramente felice?” o “Quale senti che sia la missione della tua esistenza” se rispondessimo solo con le risposte che reputiamo più facili, più convenienti? Magari con quelle che reputiamo più accettabili per le comunità con cui siamo cresciuti, i nostri genitori, i nostri amici più cari? Non c’è nulla di peggio di un Ikigai impuro.

“Ogni tentativo di dedicarsi a un -Ikigai- senza recuperare prima il proprio ordine cognitivo, e quindi una discreta onestà nelle risposte finali, non potrà che fallire nel migliore dei casi, e produrre una marea di danni altrimenti.”

Danilo Lapegna
Kintsugi Project Founder e CEO

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