"A quella temperatura Fantozzi andava sempre in estasi mistica. Questa volta gli apparve l'Arcangelo Gabriele, che gli annunciò la sua prossima maternità."
(Dal film "Il secondo Tragico Fantozzi")
La cosiddetta "illuminazione" rappresenta un fenomeno percettivo della realtà, una modalità di alterazione della coscienza che ha attraversato i secoli, le culture e le discipline. Filosofi come Platone, Plotino, Buddha, Spinoza, Nozick e tanti altri hanno cercato di definirla e spiegarla, ognuno con la propria lente interpretativa. Ci è arrivata a noi attraverso il nome di "conoscenza suprema", "unità con il tutto", "estasi", "esperienza mistica", "contatto con Dio" e molte altre. Eppure, tutte le innumerevoli testimonianze che ci sono pervenute sembrerebbero condividere una condizione di coscienza trascendente, una sorta di comprensione profonda e immediata di una realtà più ampia. Per lo più, in cui il concetto di "sé" sembra svanire e fondersi con questa stessa realtà. C'è chi l'ha definita un'esperienza definitiva, trasformativa. C'è chi ne ha parlato come una condizione di amore assoluto, eterno, illimitato, al punto da rappresentare l'unico possibile antidoto alla paura della propria mortalità. E chi ha passato tutta una vita al perfezionamento delle modalità di raggiungimento della stessa, utilizzando non di rado sostanze psicotrope per lo scopo (la drogah!).
Una costante nella nostra storia
Quando si parla di fenomeni che si mantengono più o meno invariati nel tempo e nelle culture, trovo sia particolarmente interessante approfondire proprio queste costanti. Questo perché, come hanno già osservato molte menti ben più sagge della mia, tali invarianze potrebbero suggerire la presenza di qualcosa che, pur non essendo necessariamente assoluto, ha una certa probabilità di essere "un po' più vero" del resto.
Platone, nel suo famoso Mito della Caverna, presenta l'illuminazione come una sorta di risveglio intellettuale: colui che vede oltre le ombre proiettate sulla parete della caverna diviene illuminato, in grado di percepire la realtà autentica, non più vincolato dalle mere apparenze. L'Illuminazione spirituale si manifesta poi nell'India antica, con Buddha, che riflette profondamente su cosa significhi essere illuminati. Nel buddismo infatti, l'illuminazione è uno stato di libertà assoluta, il cosiddetto Nirvana, in cui si è trasceso il ciclo della sofferenza, o samsara. Plotino invece, filosofo neoplatonico del III secolo, espande il concetto di illuminazione, cercando di unire in un certo senso la filosofia greca con l'esperienza mistica. Per lui, l'illuminazione è l'unione con l'Uno, l'origine di tutte le cose. Plotino descrive infatti tale stato come un momento in cui l'anima si fonde con la realtà assoluta.
Ma "saltiamo" a Spinoza, che nel XVII secolo parla di una "beatitudine" in quanto comprensione dell'universo come un tutt'uno divino. Come comprensione del nostro posto nel grande schema delle cose, accompagnato da una profonda sensazione di pace e serenità. E poi potremmo saltare ulteriormente, arrivando fino "all'altro ieri", al filosofo e scrittore Sam Harris, che nel suo narrare di un trip a base di funghi allucinogeni del 2020 (!!!) descrive un'esperienza in cui il sé si dissolve completamente e si rivela come un'illusione dei sensi. In questo stato, Harris descrive una morte dell'ego, una sensazione di unità con l'universo, in cui la separazione tra individuo e realtà esterna scompare del tutto. Sì, poco dopo avere avuto, nelle sue allucinazioni indotte, uno strano rapporto consensuale con un giaguaro gigante. Ma questa probabilmente è una storia per un'altra volta (e che potete trovare in questo video).
Conta la bibita o l'ingrediente segreto?
Potremmo continuare per ore a narrare le esperienze "illuminate" di intellettuali, filosofi, santi, martiri, saggi, santoni e pseudobuddha di ogni genere, ma il punto qui è:
Cosa è che varia attraverso le epoche?
Cosa è che rimane identico?
A mio avviso, gli elementi invarianti di cui tenere conto sono:
Dei trigger fisici (droghe, musica, canti, meditazione, digiuno, estenuazione fisica, etc.) che portano a un'alterazione dello stato di coscienza.
La suddetta alterazione che, per periodi più o meno prolungati, induce sensazioni di completezza, morte dell'ego, unione con il tutto, "amore illimitato".
Una tendenza a giustificare questo insieme di sensazioni con gli strumenti culturali a propria disposizione.
Trovo che l'ultimo punto sia molto importante. Per qualche motivo, l'evoluzione ci ha dotati della possibilità di accedere a stati di pura estasi, spesso talmente pervasivi da ridefinire anche le modalità percettive degli stati di "default".
Eppure, per qualche motivo la nostra necessità (sempre evolutiva?) di dare una ragione a ciò che proviamo, di inquadrarlo all'interno di schemi più gestibili e familiari, ci può far precipitare in una trappola intellettuale dalla quale potremmo non uscire mai più. Nel mondo occidentale infatti, per esempio, è molto facile definire queste esperienze come contatto con Dio, o con Gesù Cristo, con l'Arcangelo Gabriele o altre entità appartenenti alla mitologia biblica. E non ci sarebbe niente di male se la cosa non precipitasse nell'abbracciare "in toto" la narrazione dogmatica di questo o quel testo sacro. E nel cominciare, quindi, a ingabbiare anche tutti i propri doveri morali, le proprie narrazioni, in un codice che non ci appartiene davvero. D'altronde l'abbiamo sentita, no? Era la voce di Dio. Quindi ciò che è scritto nel libro... deve essere tutto vero!
I dogmi, d'altronde, nascono proprio da questo bisogno di ancorare l'ignoto a un sistema di credenze. E il problema è che il senso di sicurezza e certezza dato da questo ancoraggio rischia di farci arenare in scogli che non rendono onore alle nostre capacità intellettuali. Se ci affidiamo ciecamente a un concetto divino per spiegare l'illuminazione, corriamo il rischio di fermare per sempre la nostra esplorazione. Se abbiamo trovato la risposta "definitiva" al senso della vita, d'altronde, non solo non ci servirà più approfondire, dibattere, farci domande, ma perderemo anche di vista ciò da cui è partito tutto: l'illuminazione è il fatto "banalissimo" che... è una figata pazzesca! Sposteremo l'oggetto della ricerca dall'illuminazione, dal suo consolidamento, dal suo carattere gioioso e risanante, al bisogno di definirla, etichettarla e rinchiuderla in una gabbia di narrazioni metafisiche. Invece di goderci il sapore della bibita, passeremo il resto della vita a provare a scoprirne un ingrediente segreto... che magari non esiste neppure!
Meditazione, psichedelia e impacchi della signora Pina
E se invece dovessimo semplicemente accettare l'illuminazione come parte integrante della nostra condizione umana? Come strumento datoci dall'evoluzione per rendere il senso di mortalità un po' meno opprimente? La scienza moderna, e in particolare le neuroscienze, ha d'altronde fatto luce, almeno in parte, sugli stati neurochimici che accompagnano le esperienze di illuminazione. Il progresso tecnologico ci ha infatti permesso di osservare come specifici circuiti cerebrali e il rilascio di determinati neurotrasmettitori—dopamina, serotonina, e persino endorfine—sono proprio ciò che creano le basi per stati di estasi o trascendenza. E hanno confermato che questi stati mistici o di "illuminazione" possono essere indotti attraverso la meditazione, la stimolazione sensoriale, o persino l'uso di sostanze psichedeliche (anche se non sembrerebbero confermati gli effetti degli impacchi ustionanti della Signora Pina, come nel caso di Fantozzi). Il neuroscienziato Andrew Newberg, ad esempio, ha studiato i cervelli di monaci tibetani in meditazione profonda, dimostrando che lo stato meditativo induce una diminuzione dell'attività nel lobo parietale, responsabile del senso di sé, e un aumento dell'attività nelle aree frontali, legate alla concentrazione. Quello che per millenni era stato considerato divino, oggi è in parte spiegato dalla biochimica del nostro cervello.
Certo, qualcuno qui potrebbe obiettare che ciò che si verifica nel cervello è solo un risultato, una risposta biologica, ma correlata a un atto divino in corso in un'altra dimensione. E il punto qui, come al solito, è: non voglio dirvi in cosa credere. Però fatevi questa domanda una volta in più: in cosa è più dignitoso credere? Ammettiamo anche, infatti, che vogliate dare la risposta della realtà trascendentale, o dell'essere onnipresente che vi sussurra cose in un'orecchio: è davvero la cosa più importante in questo contesto? E in ogni caso, perché questo dovrebbe giustificare l'adozione "in toto" di questo o quel sistema di credenze religiose?
Godetevi le vostre... illuminazioni!
Ciò che emerge da tutta questa lunga riflessione, insomma, è il mio invito a esplorare l'illuminazione come una dimensione naturale e "terapeutica" della propria esistenza. Lo star meglio in questa esistenza limitata, a mio avviso, giustifica tutto il percorso di ricerca alla sua base. L'essere più presenti, più autentici, e il costruirsi una vita che valga la pena di essere vissuta, è in fondo tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Senza "decorare" tutto ciò con significati che rischiano di intrappolare la nostra esplorazione intellettuale in sistemi che sono fatti per arrestare ogni forma di esplorazione.
Meditazione, respirazione consapevole, contemplazione della natura, esercizio fisico, persino l'arte e la musica: sono tutte le migliori pratiche con cui accedere a uno stato di maggiore consapevolezza, di dissoluzione del sé. Perché sì, qui devo fare la "zia un po' noiosa" e raccomandarvi di farlo senza le controindicazioni che potrebbero derivare dall'uso di droghe o sostanze psicotrope di questo o quel tipo. Sostanze che sì, generando letteralmente delle "scorciatoie" per esperienze trasformative molto profonde possono facilmente creare cicli di dipendenza dai quali non è più possibile uscire. La bellezza di tutti gli altri strumenti, invece, risiede proprio nel fatto che sono parte integrante della nostra biologia e cultura, già pronti per essere sfruttati in modo sano e sostenibile. Richiederanno più tempo, ma proprio come accade con molte altre cose, la maggiore durata ci permetterà di consolidare qualcosa di più profondo, duraturo, e quindi meglio integrato nella nostra quotidianità. Senza quei picchi innaturali che ci trasformeranno solamente in automi alla ricerca della successiva "dose".
Come dico spesso, e come molti hanno detto prima di me, forse la ricerca della verità ultima non è un’impresa che appartiene pienamente alla condizione umana. La nostra capacità di cogliere una verità assoluta è inevitabilmente limitata, e paradossalmente questa incertezza potrebbe essere l'unica certezza a nostra disposizione. Se così è, perché non scegliere di "illuminarci" in ogni senso, abbracciando l'autodeterminazione anche di fronte al mistero più profondo, e magari... godendoci un po' di più la vita?
(fate però sempre attenzione al giaguaro gigante!)
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