No, la tua parola non è irrilevante!
Leggi articolo (🌟 Beta)
1.25x
Non so se fai parte di quegli individui che, ogni tanto, temono di finire con l'essere completamente irrilevanti. Irrilevanti all'interno del rumore contemporaneo, delle discussioni "social" su questo o quel trend. O magari a paragone di altri comunicatori che reputi "ben più abili" di te. In un contesto come quello moderno infatti, questa "illusione di irrilevanza" finisce con l'essere una trappola facile, che sia ciò a causa della nostra autopercezione o della "amara constatazione" di vivere immersi in un'economia dell'informazione altamente competitiva. Siamo così facilmente e frequentemente messi alla prova dal mercato dei "like" che è facile scambiare il valore di ciò che diciamo, o peggio, ciò che siamo, con il corrispondente grado di "approvabilità" social. E così, magari in modo del tutto subdolo o inconscio, finiamo per "autoprogrammarci" con l'idea che le nostre parole siano insignificanti, che non avranno mai un impatto sulla realtà o sugli altri. O peggio, che siamo destinati a non emergere, a non essere ascoltati mai.
Un primo antidoto a questa sensazione tuttavia va trovato, come sempre, nel recuperare un senso della realtà; nel comprendere che questa sensazione potrebbe stare nascendo da una nostra percezione emotiva piuttosto che da un insieme di dati di fatto. Chiaro che è possibile che i nostri messaggi non stiano efficacemente raggiungendo i propri destinatari e quindi che le nostre abilità comunicative vadano migliorate. Tuttavia, va anche considerato che se ci siamo "spartanamente" classificati come "irrilevanti" o "inascoltabili" senza troppe sfumature di contorno non ci stiamo neanche fornendo delle possibilità di analisi o miglioramento. Da dove potremmo quindi partire per recuperare una prospettiva più ampia e razionale sul nostro senso di potenziale comunicativo?
Proviamo un attimo a riflettere su questo principio: ogni comunicazione richiede un "inevitabile" investimento di energia sia da parte del mittente che del destinatario. Quando parliamo o agiamo, trasmettiamo informazioni che richiedono elaborazione cognitiva da parte di chi le riceve. Persino il semplice atto di ignorare un messaggio richiede uno sforzo cerebrale da parte dell'interlocutore, per quanto minimo. E questo sforzo di processamento, a mio avviso, rievidenzia una verità potente; fa emergere il fatto che ogni contributo comunicativo, anche quello che sembra trascurato, ha un impatto tangibile sull'interazione finanche sulla fisiologia di chi riceve. Non ci sarà ovviamente mai concesso che tale impatto sia sufficientemente rilevante, o che faccia andare l'altro nella direzione che desideravamo, ma ancora una volta: è tutta questione di ricordarci che le nostre parole hanno un peso, un impatto, che possono modificare concretamente la realtà informativa che ci circonda.
Questo principio di tensione comunicativa, intrinseco in ogni interazione, si lega strettamente all'idea che la persuasione può avvenire in modi meno evidenti e diretti di quanto comunemente si pensi. La ricerca in psicologia sociale e comunicazione offre diversi spunti rivelatori in questo senso. Ad esempio, il fenomeno noto come "effetto sleeper" illustra come un messaggio inizialmente scartato o ignorato possa, col tempo, anche essere riaccettato e integrato inconsapevolmente nelle proprie convinzioni. Ciò può avvenire perché magari l'idea è stata inizialmente "cestinata" a causa del contesto, di dinamiche interpersonali particolari o di una reazione emotiva. Poi però con il passare del tempo, si tende a dimenticare la fonte del messaggio e a concentrarsi sul contenuto, attribuendogli una nuova validità. Quante volte, per esempio, hai suggerito un'idea a qualcuno che l'ha rigettata e poi, dopo qualche giorno, l'ha riproposta come propria?
Sia chiaro, molte ricerche psicologiche hanno dei limiti, ed è fondamentale ricordarsi che non potremo mai avere la certezza assoluta che un segnale di silenzio o rifiuto si sia tradotto in una "persuasione nascosta". Tuttavia qui non è tanto questione di improvvisamente reputarsi dei persuasori perfetti, quanto di "credere un po' meno" ad alcuni segnali di rifiuto. Rispettarli sì, ma provando a sviluppare quell'intuito necessario per comprendere se a volte non ci possa essere anche dell'altro. Provare del proprio meglio sul momento e poi "dimenticarsene", dando una possibilità e il giusto tempo alla realtà di elaborare e far proprio il nostro messaggio. Perché se l'illusione di irrilevanza è spesso uno stato emotivo, è anche vero che possiamo smantellarlo lavorando su noi stessi. Imparando a comunicare bene, cercando di comprendere i feedback altrui che si annidano "tra le righe" (e che spesso trovano conferma nel modo in cui i fatti e i comportamenti contraddicono le parole), annotandoli e cercando di migliorare sulla base degli stessi. Basta una sufficiente ripetizione di questi banalissimi "esperimenti", una certa attenzione a non sovrascrivere la realtà con le nostre supposizioni sugli altri e potremmo scoprire che abbiamo molto più potere persuasivo di quanto i momenti di scoraggiamento, o rifiuto, ci avessero inizialmente suggerito. E magari chissà, il "potere persuasivo in ritardo" dell'effetto sleeper è già in movimento senza che ce ne stiamo rendendo conto. E lì fuori più persone di quanto crederemmo stanno pensando proprio a noi ed alla bontà delle nostre idee.
Con questa comprensione, sia chiaro, emergono anche considerazioni più profonde riguardanti la responsabilità intrinseca nel nostro ruolo di comunicatori: la libertà di esprimersi è un diritto fondamentale, ma è anche un potere che porta con sé un "peso" notevole. Ogni volta che scegliamo di parlare, potremmo incidere significativamente sull'ambiente comunicativo che ci circonda. Questo impatto non è limitato alla semplice trasmissione di informazioni; come abbiamo appena visto, può estendersi al modellamento delle percezioni, delle emozioni e persino delle azioni degli altri. In questo contesto, il discernimento diventa un compagno indispensabile della libertà di espressione.
Le nostre parole dovrebbero essere sempre ponderate non solo per la propria accuratezza o correttezza, ma anche per il loro potenziale di contribuire in modo significativo al dialogo o alla situazione. Questo significa valutare attentamente se ciò che stiamo per dire arricchisce la conversazione, apporta una nuova prospettiva, stimola il pensiero critico o facilita la risoluzione di problemi.
Quella che invece vedo sui social è una vera e propria "deriva comunicativa", in cui molte interazioni diventano nulla più che veicoli di bassi impulsi: sfogo emotivo, esibizione di sé, desiderio di rivalersi sull'altro. Questo trasforma alcuni luoghi virtuali in veri e propri "inferni comunicativi" e forse ci ha quasi abituati al vivere una parte della nostra vita immersi in comunicazioni tossiche, confuse, prive di qualunque qualità o significato. E se ciò avesse anche distrutto una parte della nostra capacità argomentativa?
A mio avviso, tuttavia, diviene fondamentale dar luogo a una ribellione intellettuale a tutto ciò; diviene essenziale tornare ad essere dei "fanatici" di una comunicazione intenzionale, mirata e consapevole del valore apposto alla controparte; qualcosa che richiede un attento esame dei propri messaggi prima che vengono "emessi". Magari, imponendoci sempre previe domande come: "Questo contribuirà in maniera costruttiva al dialogo? Aiuterà a chiarire un punto, a fornire una soluzione, o a illuminare una prospettiva diversa?". (e se la risposta è "no", il silenzio deve essere sempre un'opzione possibile.)
"Reintrodurre" la piccola rivoluzione della razionalità, dell'approfondimento e del dialogo responsabile e consapevole è una delle missioni di più alto valore che possiamo intraprendere in quest'epoca. La comunicazione, dopo tutto, non è solo un atto di trasmissione, ma diviene spesso un vero e proprio processo di creazione: di significati, di connessioni e, in definitiva, di prospettive sul mondo in cui viviamo. Cosa quindi è l'incentivazione alla pessima comunicazione, se non l'incentivazione a costruirsi un mondo orrendo in cui vivere?
Ci vediamo alla prossima!
Potrebbe piacerti anche...
Gli articoli selezionati dal team
Connettiti, contattami, scambiamoci idee!
Danilo Lapegna
CEO e Founder del "Kintsugi Project"