Nichi-bon: il profondo potere autoterapeutico della normalità

Nichi-bon: il profondo potere autoterapeutico della normalità



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Non sarà probabilmente una notizia per nessuno: siamo immersi in un oceano di stimoli digitali che ci spingono verso una continua ricerca di gratificazione immediata. Questo costante desiderio di "più e altro" ci sottopone a vincoli di autentica dipendenza, mascherati da illusione di costante sazietà. Ci crediamo pieni, soddisfatti, indipendenti, per poi provare astinenza ogniqualvolta siamo per più di tre minuti lontani dal nostro smartphone. Abbiamo finito per accettare passivamente tutto ciò, e il modo in cui questa bulimia informativa ci impedisce di godere in profondità del quotidiano ci sembra ormai "normale".
Tutto ciò va ovviamente a braccetto con il modo in cui idolatriamo l'efficienza, la velocità, la capacità di produrre risultati tangibili e misurabili. Chiaro che in alcuni casi efficienza e produttività sono necessari. Però se nella nostra gerarchia di valori tutto ciò che conta sono le metriche relative ai nostri output, ecco che "andrà benissimo" sacrificare qualità, ingegno, creatività o benessere in nome della compulsività.
In questo contesto, diviene fondamentale riscoprire l'importanza di una Nichi-Bon ( ), un'esistenza normale. Normale nel senso di centrata, consapevole, non eternamente alla ricerca di "altro". Non certo rifiutando la tecnologia esistente, ma seguendo una ferma decisione a viverla con intenzionalità. Non rinunciando al produrre e creare, ma scegliendo di farlo in modo conscio, "sano". Scegliere la normalità e la profondità in un'economia dell'eccesso e della superficialità è una dichiarazione di indipendenza, un rifiuto del ruolo di pedina in un gioco insostenibile. Ma, se volessimo andare un po' più a fondo, come potremmo di preciso privilegiare una filosofia di "Nichi-bon" nella nostra vita di tutti i giorni?

 

Ripensare il nostro ruolo

In realtà un simile obiettivo passa per banali principi di buonsenso, che però mai come oggi tornano a essere preziosi. Il primo è ovviamente l'autoaccettazione, il "farsi andare bene" che siamo esseri in continua evoluzione, che possono commettere errori, che hanno debolezze; ma che, al tempo stesso, proprio per questo possiedono una propria forza unica e capacità distintive. L'individuo che è a suo agio con la propria immagine di sé è, infatti, tipicamente anche quello meno manipolabile dall'incessante marketing del "però dovresti essere". Quando siamo in pace con la nostra immagine riusciamo a gestire meglio i nostri impulsi, la nostra "fame di tutto ciò che non è alla nostra portata". La nostra voracità nei confronti di questo flusso di distrazione infinita, il cui scopo principale è spesso quello di ricordarci cosa ci manca. Non è ovviamente questa la soluzione finale al problema, ma può rappresentarne una discreta componente risolutiva.
Chiaro poi che non sempre è facile accettarsi, specialmente se abbiamo un qualche reale bisogno, o desiderio, di migliorare la nostra condizione attuale. Tuttavia, come sempre, lo sforzo è nel gioco di equilibri, nel puntare a crescere per "desiderio di", più che per "paura o disgusto di non". Nell'assumere con sé stessi il ruolo di "mentore gentile", piuttosto che di "maestro un po' s*****o". Che poi ciò, a mio avviso, può anche aiutarci a responsabilizzarci e ridurre (o almeno mitigare) il rischio di incappare nel disastro del vivere di rancore nei confronti della società, del reputarsi eterne vittime di un qualche sistema immaginario.
Sull'ultima frase: chiaro che le ingiustizie esistono e vanno combattute; tuttavia vivere di questo stato mentale senza un chiaro appiglio sulla realtà, e senza un chiaro progetto di riconoscimento  innanzitutto delle proprie responsabilità non può che condurre verso un'esistenza infelice e frustrante.
Per tutto il resto poi, e per approfondire ulteriormente il discorso "fare pace con la propria immagine di sé" potete consultare questo articolo.

 

Riappropriarsi dell'intenzionalità nel vivere il proprio tempo

Ma gran parte di questo processo passa anche necessariamente per una ferma decisione di riappropriarsi del proprio tempo; di riscoprire l'importanza fisiologica del godere delle piccole cose, del lento maturare dei processi, dell'attesa e della contemplazione. E anche per riscoprire il valore, mai come oggi dimenticato, del banalissimo ozio. È "banale" scienza del cervello, d'altronde: dato il funzionamento dei nostri meccanismi di neuroplasticità, è solo fermandoci che possiamo consentire alla mente di rigenerare le proprie risorse e stabilire nuove connessioni neurali. È solo nell'ozio che possiamo trovare la libertà di sviluppare nuove prospettive ed è solo lì che possiamo imparare ad affrontare i nostri problemi con immaginazione, creatività ed "equilibrata negoziazione tra le parti". La frenesia e la compulsività ci rendono, invece, più simili ad automi, a vere e proprie "macchine da lavoro", perfette per un'esistenza da catena di montaggio. Qualcuno qui potrebbe persino trovare l'ultima immagine eccessiva, o semplificante; ma a mio avviso non rimane poi così distante dalla realtà che ci attende se continuiamo a vivere una vita all'inseguimento di irrealistiche bugie. Cedere al mercato dell'iperstimolazione e dell'iperattività ci ha resi più simili a gattini che inseguono costantemente una luce luminosa proiettata sul muro, piuttosto che a esseri realmente e pienamente autodeterminati. E quando guardiamo ai malesseri contemporanei, alla nostra crescente incapacità di fermarci e approfondire, ecco che ci rendiamo conto che già "non ce la stiamo passando benissimo". E che quindi un'inversione di tendenza va ricercata... a partire da ieri? Fermandoci più spesso, tornando a una consapevolezza "orientale" e contemplativa del presente. Facendoci andare bene i momenti di stop, di noia, di "meno". Non ricercando di riempire, come autentici tossicodipendenti, ogni vuoto con un'iniezione elettronica di eccitazione neurochimica. Non credo sia facile. Credo però sia necessario.

 

Il consiglio pratico: impara a fare qualcosa di "non scriptato"

Oltre a meditare sui principi visti finora prova ad allocare, proprio nel tuo calendario, dei momenti dedicati all'improvvisazione e alla spontaneità. Che tu utilizzi un'app di pianificazione o un classico diario cartaceo (preferibile in contesti del genere), riserva degli slot di tempo per attività non strutturate, lasciando così spazio a frammenti inattesi di "pura e semplice" quotidianità.
Durante questo tempo, "consentiti" di sperimentare con attività come l'arte, la cucina o la scrittura, senza un obiettivo specifico; prova a seguire il flusso della tua immaginazione, senza aspettative o pressioni. Oppure, un'altra idea potrebbe essere quella di programmare delle "passeggiate senza meta". Scegli un giorno e un'ora e semplicemente inizia a camminare, lasciandoti guidare dalla curiosità e dall'istinto, anziché da un percorso prestabilito. Si tratta di banalissimo buonsenso: l'esposizione a nuovi ambienti, e la varietà di stimoli visivi e sensoriali che incontriamo in una passeggiata possono avere effetti positivi sul benessere psicologico, incrementare la creatività e ridurre i livelli di stress. Inoltre, l'atto di esplorare senza una meta definita può incoraggiare una maggiore consapevolezza dell'ambiente circostante. Promuove un senso di scoperta e meraviglia. Tutti aspetti fondamentali per mantenere una mente attiva e aperta.
Attraverso i tuoi momenti "non scriptati" è probabile che ti rivelerai sempre più una verità preziosa: ossia che tutto quel casino, quel continuo produrre e fruire, non ti serve veramente per stare bene. Che detta così può sembrare una banale verità di buonsenso, ma differente è esperire questa verità. Perché una prospettiva di "Nichi-bon", di normalità, di "meno", può essere inizialmente percepita come una forma di quiete piatta e senza sfumature, ma è nel concederci di viverla che potremmo vederla rivelarsi come il più fertile terreno per la crescita e l'esplorazione del sé.

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Danilo Lapegna

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