Contro la "purezza della lingua": perché le contaminazioni ci aprono alla complessità

Contro la "purezza della lingua": perché le contaminazioni ci aprono alla complessità



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Mi è capitato di notare, abbastanza di recente, un certo tipo di fenomeno culturale, capitanato da vari "puristi della lingua", secondo cui i termini anglofoni sono il male assoluto e bisognerebbe "tradurre sempre tutto", inclusi termini di uso comune come "budget" o "brunch". Sì, la lingua italiana è bellissima e provo anche io una personalissima "antipatia" nei confronti chi riempie le proprie espressioni di termini anglofoni pur di "atteggiarsi" a businessman, o businesswoman dell'East Silicon Valley. In ogni caso, pur riconoscendo questi problemi, mi sentirei di ribadire che:

  • Navigare alcuni mondi tecnici o accademici, come quelli dell'informatica o della finanza, richiede necessariamente l'utilizzo di contaminazioni linguistiche, siano esse anglofone, germaniche o asiatiche; questo, per il "banalissimo" motivo che le loro complessità richiedono collaborazioni complesse, che risultano semplificate dall'uso di termini che scavalcano le barriere linguistiche nazionali. Non tutti, ovviamente, vivono e respirano in questi mondi; tuttavia provare a farne propri i lessici piuttosto che rifiutarli può essere un ottimo modo per crescerne e condividerne le complessità, i significati e le filosofie. Un ottimo modo, insomma, per apprendere qualcosa in più, da mondi ben più grandi e aperti di quelli limitati dal confine nazionale.
  • Tutto ciò che è considerato “puro” oggi è stato contaminazione in passato, così come la contaminazione di oggi sarà, oggettivamente, la tradizione del domani. Trovo ogni forma di purezza linguistica, in quest'ottica, poco meno che un'illusione, costantemente alimentata da certa pessima politica del "lunge et impera" (unisci, sotto una bandiera uno stendardo etc. e comanda così il gruppo ergendoti a capobranco; sì, è un'espressione volutamente paradossale). Politica che trova probabilmente terreno fertile nel modus operandi della scuola italiana, molto italiano-centrica, e iper- attenta allo studio di grammatica e sintassi; che per carità, niente di male in tutto ciò, però questa impronta didattica ci ha instillato fin da bambini in testa l'idea di una lingua monolitica, prescrittiva, impositiva, anziché dinamica, in continua evoluzione in virtù dell'uso che se ne fa. Ostinarsi a mantenere le lingue pure e immutate è come cercare di congelare un fiume in piena: un'impresa destinata al fallimento clamoroso, in quanto impostata fin dal principio sull' "innaturalità" dell'ignorare l'importanza del movimento e del cambiamento. 
    Forse dovremmo finalmente riconoscere e mettere da parte certi condizionamenti storici, se non altro per orgoglio personale; per dimostrarci che possiamo essere qualcosa in più del nostro mero imprinting infantile.

  • Le contaminazioni linguistiche possono rivelarsi straordinariamente arricchenti del nostro repertorio scritto e parlato. Spesso infatti, per quanto ci impegniamo, le traduzioni letterali dei termini non rendono appieno i concetti originari, e le parole prese in prestito ad altre lingue (o spesso persino altri dialetti) rimangono il metodo migliore per esprimere concetti specifici e complessi. Trovo tra l'altro proprio l’inglese una lingua che, pur con i suoi inevitabili difetti, si rivela incredibilmente concisa ed efficace, in grado di sintetizzare concetti anche estremamente complessi in poche sillabe. Possiamo non essere d'accordo qui; tuttavia per me l'efficienza batte qualunque altro proposito ideologico o nazionalistico.

  • Bisogna rigettare, a mio avviso, ogni narrativa divulgata dalla pessima politica e filosofia di cui sopra; ogni tentativo di mettere una certa identità linguistica e nazionale al di sopra della nostra complessità ci svuota, ci impoverisce e ci fa chiudere al "di più". È un analgesico facile per tutti coloro che, avendo rinunciato a un vero lavoro di costruzione della propria identità, hanno trovato facile rifugio in un'etichetta "fast food", economica e facile da consumare. Ma soprattutto, è un ottimo modo per innalzare tutti quei muri che impediscono a una società di divenire complessa, policulturale e, in quanto tale, di fare emergere più solutori differenti per ogni tipo di problemaChe per carità, va bene aggiungere alla propria identità anche l'idea di essere italiani, olandesi, o svedesi che sia; sono anche gli stilemi culturali del posto in cui viviamo, in parte, a definirci. Ma in quell' "anche", in quell' "in parte", risiedono a mio avviso tutte le differenze del mondo; più infatti ci limitiamo a definirci con un insieme ristretto di etichette e più riduciamo i nostri spazi di azione, pensiero e potenziale.

Ogni barriera che ergiamo nei confronti di un arricchimento potenziale, magari scartandolo anche come "fastidiosa contaminazione", potrebbe insomma rappresentare una barriera che ci impedisce l’integrazione di una parte fondamentale del nostro "io". Potrebbe rappresentare la radice di una nostra rinuncia a crescere o apprendere, o magari di un nostro disagio mai affrontato veramente. E così è tutta questione, come in ogni "inevitabilmente doloroso" processo autoterapeutico, di imparare a essere onesti con noi stessi e provare a fronteggiare queste nostre (legittime) debolezze. Magari cominciando con il chiederci, nel rifiutare di armonizzare questi elementi nel nostro quotidiano, nel definirli un “corpo estraneo", a quanto ciò sia dovuto a una paura del cambiamento o del confronto con un mondo diverso (e magari migliore sotto certi aspetti?). Proviamo a considerare quanto, attraverso tale "fuga" dai nostri timori, ci stiamo privando di flessibilità e curiosità intellettuale; e soprattutto proviamo sempre a tenere a mente quanto solo questi ultimi elementi possono conferirci significato, autodeterminazione, e prospettive di crescita realmente elevate. 

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Danilo Lapegna

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