La soluzione è già lì, ma tu non vuoi vederla
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Dovremmo saperlo ormai, eppure lo ignoriamo costantemente: la nostra mente è estremamente limitata. Dalle distorsioni del nostro pensiero, dalla quantità di informazioni che siamo in grado di caricare in memoria, dalla parzialità della nostra esperienza, dalla limitatezza fisica delle nostre risorse neurali. E così, quando siamo afflitti da un problema, la nostra capacità di cercare soluzioni è fortemente compromessa non solo da questi limiti, ma dal modo in cui tendiamo a sottostimarli e a scambiarli per limiti della realtà.
La nostra mente, nella sua limitatezza sarà sempre e comunque in grado di contemplare e intendere molte meno possibilità, prospettive, sfumature rispetto a quelle realmente a nostra disposizione. Questa realtà, apparentemente terribile, ci comunica però qualcosa di estremamente confortante, fornendoci la migliore ragione per non sottometterci a un'apparente assenza di soluzioni: molto probabilmente esistono molte più opportunità e risorse di quelle che il nostro cervello inizialmente può suggerirci.
Ciò accade per molte ragioni, alcune delle quali le abbiamo accennate ad inizio articolo. Ma andiamo un po' più a fondo: innanzitutto, questa limitatezza è puramente informativa e deriva dal fatto che siamo più ignoranti di quello che crediamo: la realtà infatti raggiunge livelli di complessità e varietà molto superiori a quelli che la nostra mente può intendere e classificare.
Inoltre, tutti i sentimenti neurochimicamente associati allo stress o alla paura hanno un profondo carattere restringente, enfatizzante ed auto-perpetuante. Rivediamo queste tre parole. Restringente: ossia la nostra prospettiva (e finanche la nostra vista) viene "intenzionalmente" ristretta dai nostri meccanismi biologici affinché la nostra attenzione sia spietatamente focalizzata su ciò che è più contingente alla situazione di rischio. Poi, enfatizzante. Ossia, abbiamo spesso bisogno di amplificare alcune percezioni di pericolo così da garantire la nostra sopravvivenza. E infine, auto-perpetuante: ossia spesso queste situazioni finiscono con il distorcere la prospettiva oggettiva delle cose in modo tale da “nutrire” sé stessi e continuare a esistere, finché il pericolo non è stato rimosso. Si tratta ovviamente di una serie di condizionamenti evolutivi senza i quali la nostra specie non sarebbe sopravvissuta a lungo, ma che oggi si rivelano molto più disfunzionali di quanto non accadesse in passato.
Una prima "cura" a tutto ciò, come si potrebbe immaginare, è nella classica, banalissima consapevolezza di sé e delle proprie reazioni. Nell'aprirsi alla possibilità che le nostre reazioni più immediate potrebbero essere sbagliate, per provare poi ad aprire la propria mente a ogni possibilità differente. Lo scopo in particolare, se volessimo trovare un riferimento emotivo potente, potrebbe essere di puntare a uno o più di quei momenti illuminanti che probabilmente hai vissuto anche in passato; uno di quei: “Ehi, effettivamente questa cosa positiva funziona, questa cosa esiste, questa cosa può aiutarmi, e all'inizio non ci avevo assolutamente pensato”. Nell’allenarsi quindi a distinguere la propria prospettiva, limitata, dall’evidenza reale delle cose, spesso molto più complessa e ricca di verità utili; pensare, per esempio, che quella persona ci rifiuterà perché siamo brutti, “sfigati”, o perché così è già accaduto una volta, è solo assecondare una costruzione mentale. Dobbiamo dare una chance alla realtà, e immaginare che qualcosa possa andare anche meglio di ciò che crediamo, che ci sia una risorsa anche dove non l’avremmo mai trovata, che si possa trovare un'opportunità dove non ne avevamo idea.
Un'ottima espressione, nella quale sono incappato qualche tempo fa, e che credo riassuma perfettamente questa mentalità, è la cosiddetta "alta fattività". Non so se avete visto il film "The Martian", per esempio, ma ne è una perfetta rappresentazione. In tale film (e libro) il protagonista Mark Watney, abbandonato su Marte con risorse limitate, mostra una straordinaria capacità di problem solving: coltiva patate utilizzando il terreno marziano e il proprio rifiuto biologico come fertilizzante, ripara equipaggiamenti e modifica i sistemi di supporto vitale per sopravvivere. Ogni giorno è un esercizio di creatività sotto pressione, un continuo riadattamento della propria strategia per massimizzare le scarse risorse a disposizione. Se Watney si fosse arrestato al carattere restringente/enfatizzante/autoperpetuante del suo scoramento iniziale (che per carità, tremendi i nostri problemi, ma lui è rimasto senza cibo a 300 milioni di chilometri dalla Terra), sarebbe morto dopo pochi giorni. E noi, in quante occasioni siamo metaforicamente "morti" nell'attraversamento di un percorso solo perché ci siamo arresi alla possibilità di adottare nuove prospettive e di sperimentare con nuove soluzioni?
La soluzione è già lì, ma tu non vuoi vederla!
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Danilo Lapegna
CEO e Founder del "Kintsugi Project"