ChatGPT sta per rubare il tuo lavoro?

ChatGPT sta per rubare il tuo lavoro?



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Il timore che le AI (o IA, se vogliamo dirla all'italiana) possano usurpare il nostro prezioso impiego è una preoccupazione legittima, radicata nella storia dell'innovazione tecnologica e in un giusto desiderio di autopreservazione. Sì, storia innanzitutto: non sorprenderà infatti probabilmente nessuno il fatto che, da quando siamo su questa terra, ogni grande svolta tecnologica ha portato con sé una certa dose di apprensione. La rivoluzione industriale fu inizialmente percepita come una minaccia per l'occupazione tradizionale. In moltissimi credevano che l'operaio, come figura, sarebbe scomparsa e rimpiazzata dall'ultimo automa di turno. Eppure, con il passare del tempo, queste innovazioni non solo hanno trasformato radicalmente in meglio il modo in cui lavoriamo ma hanno anche oggettivamente migliorato le condizioni di vita, aumentato i salari e ridotto le ore lavorative. Oppure, riflettendo su epoche ben più recenti, in troppi temevano che i computer avrebbero reso obsoleti numerosi lavori manuali e intellettuali. Eppure, con il passare degli anni, abbiamo assistito a un vero e proprio processo di trasformazione e integrazione: i computer non hanno certo sostituito l'uomo, ma hanno ampliato le sue capacità, generando infinite nuove professioni, nuovi mercati, nuove opportunità. Nessuno qui vuole sostenere, ovviamente, che le condizioni nel mondo del lavoro siano oggi perfette; eppure, sono oggettivamente migliorate rispetto a cento, cinquanta, anche solo dieci anni fa. E il merito, in gran parte, va concesso all'innovazione tecnologica.
Ogniqualvolta si è infatti temuto che una tecnologia produttiva potesse generare un'apocalisse, si è nella maggioranza dei casi generato un processo trasformativo e integrativo, di unione degli sforzi uomo-macchina. Qualcosa a partire dal quale è stato obiettivamente necessario meno impegno fisico, più ingegnosità e meno ore lavorative nel complesso per sostenere l'intero processo produttivo. Si sa d'altronde, la "fame di apocalisse", il desiderio di vivere qualcosa di epocale, è un impulso antico e radicato in ognuno di noi; forse, è uno specchio del nostro terrore di vivere (e morire) ai margini della storia.

Certo, sarebbe riduttivo e ingenuo concludere l'articolo qui, con una tesi che si basa sulla (fallace) idea che il passato sia un precursore affidabile del futuro. Si potrebbe infatti giustamente obiettare che le AI sono qualcosa di "mai visto prima" in termini di capacità di portare a termine compiti complessi, il che fa emergere tantissimi problemi inediti: si pensi alla gestione dei dati e alla relativa proprietà intellettuale. Ma anche a una possibile polarizzazione del mercato del lavoro, dove le competenze altamente specializzate possono venire premiate a discapito delle competenze meno qualificate; e, guarda caso, le "vittime sacrificali" in un processo evolutivo così dirompente potremmo essere proprio noi.
Il punto, tuttavia, non é negare questi problemi, né la legittimità delle nostre paure, quanto affrontarli con la complessità che il caso richiede. È necessario un dibattito razionale e strutturato, piuttosto che la solita risposta del rifiuto tecnologico (così come, ed è importante sottolinearlo, la risposta dell'altrettanto dannoso entusiasmo irrazionale; ma quello magari è una argomento che affronteremo in un altro articolo). È fondamentale ricordarsi innanzitutto la banalissima verità secondo cui certe cose non spariranno solo perché abbiamo deciso di ignorarle; ma anche quella altrettanto banale (ma altrettanto preziosa) secondo cui dare risposte così semplici a problemi così complessi è l'equivalente del curare una complessa malattia rara con rituali voodoo. Serve un approccio pragmatico, lungimirante, ma soprattutto flessibile e aperto: è probabile infatti che ogniqualvolta temiamo troppo un cambiamento sia innanzitutto dentro di noi che dobbiamo guardare, e alla nostra incapacità di distaccarci dal nostro naturale desiderio di "conservare". Un desiderio conservatore che tra parentesi, ahimè, noto come particolarmente pervasivo nella mia generazione, quella millennial. Tale generazione aveva infatti un potenziale: in quanto prima ad aver vissuto nativamente la transizione digitale, avrebbe potuto rappresentare un importante ponte tra il mondo online e quello offline. Invece, in gran parte (almeno in Italia) si è "rifugiata" in un mondo-campana di vetro, giocando a fare la copia della generazione precedente. Il risultato insomma è stato quello di "passare silenziosamente" il testimone alla Gen-Z, ben più determinata nell'aver definito la propria personalità e scelto le proprie battaglie.
Il consiglio pratico: favorisci questo processo di integrazione
Va bene, magari le AI "ti stanno sul cavolo" e non hai assolutamente voglia di integrarle nella tua vita quotidiana. Eppure provaci per uno, due, sette giorni:
  • Carenza di idee? O problema che ti affligge da tempo? Chiedi banalmente a ChatGPT "Ragiona come un creativo e dammi soluzioni originali e potenti, ma altrettanto realizzabili per risolvere questo problema". Non limitarti ovviamente alla prima risposta, ma utilizza gli spunti risultanti come punto di partenza per pensare maggiormente "fuori dagli schemi".
  • Migliora la tua comprensione di un topic: vuoi capire più di qualcosa? Vai su ChatGPT e chiedi "spiegami questa cosa come se io fossi un bambino".
  • Amante della cucina? Usa assistenti virtuali basati su AI per trovare nuove ricette in base agli ingredienti che hai a disposizione, per imparare tecniche di cucina con video interattivi, o per organizzare la tua lista della spesa in modo più efficiente.
  • Sei un artista e temi che la AI possa rubare il tuo lavoro? Prova piuttosto a chiederti come possa velocizzarlo, aiutandoti a rifinire i tuoi lavori, a produrne di più, a vendere di più.
  • Migliora la tua economia personale: fornisci a ChatGPT le tue entrate e uscite mensili e chiedi consigli su come migliorare la tua finanza nel mese successivo.
  • Sei un insegnante? Utilizza ChatGPT o qualunque altra AI per creare quiz personalizzati o giochi educativi che possano coinvolgere gli studenti in modo nuovo e creativo, o per analizzare le tendenze nelle prestazioni degli studenti per individuare aree che necessitano di maggiore attenzione.
Quella che emerge nella sfida tra tecnologia e umanità è insomma un classico esempio di "falsa dicotomia". In ogni nuova sfida che la tecnologia ci presenta, c'è un'opportunità di conoscenza, di innovazione, di collaborazione più profonda tra uomo e macchina. E, in un certo senso, di miglioramento della nostra umanità.
Possiamo affrontare queste sfide con il senso di complessità e il giusto senso critico che richiedono; oppure, rinchiuderci in una campana di vetro luddista, fatta di semplificazioni, rifiuto della realtà, nostalgia per il passato e "amore" per la narrazione sul potenziale apocalisse di turno. Il punto è: dove ci porta veramente ognuna di queste alternative?

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Danilo Lapegna

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