E se dovessi dormire solo una maledetta ora in più?

E se dovessi dormire solo una maledetta ora in più?



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Torniamo a parlare del delicato equilibrio tra livello “hardware e software” del nostro corpo: possiamo narrarci quante storie vogliamo, possiamo lavorare sulla riduzione della nostra “entropia cognitiva”, o persino ristrutturare completamente le nostre storie passate all’interno di un percorso di terapia, ma rimane sempre il magari banalissimo, ma per questo incredibilmente sottostimato fatto, che non potrà esserci un’esistenza di qualità senza un’attenzione particolare (e oserei dire, quasi maniacale?) nei confronti del proprio corpo.
Chiaro che per molti questa potrebbe suonare come l’ovvietà del secolo, ma è altrettanto ovvio che ci sono molte criticità potenziali nel modo in cui direzioniamo il nostro focus e razionalizziamo la nostra attribuzione delle responsabilità. Siamo tutti consapevoli di avere delle esistenze imperfette, ce ne lamentiamo, non ci piace e “vogliamo di più”; eppure, quanto spesso ci siamo chiesti se la convivenza con queste imperfezioni non possa essere resa più pacifica semplicemente prestando un po’ attenzione extra alla nostra gestione di sonno e caffeina? Quanto veramente migliorerebbero le nostre capacità di concentrazione, attenzione e problem solving se solo facessimo esercizio fisico 4, 5 volte alla settimana? Quanti ostacoli apparentemente insormontabili potremmo improvvisamente riprocessare in un: “ehi, ma in fondo questa cosa potrei provare a smontarla piano piano!” se cominciassimo a mangiare in modo sano, e di farlo non solo nei tre mesi all’anno che precedono una prova costume?


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“Molti di noi sono consapevoli dell’importanza delle cosiddette abitudini salutari, ma continuano a essere molto confusi quando si tratta di inquadrarle nel proprio ordine di priorità.”


Più infatti parlo con chiunque dell’argomento e più noto che il dormire poco e male, l’evitare ogni esercizio fisico, l’ignorare i basilari criteri di igiene del sonno rimangono elementi trascurati anche laddove ci sia un forte desiderio di cambiamento o crescita. Preferiamo sempre cercare risposte altrove, in storie accattivanti, o nei peggiori dei casi in qualche fuffosa “teoria segreta” del benessere sfornata dall’ultimo guru di turno. Questo può derivare da diversi fattori: il fascino dell’esotico, prima di tutto. Poi, perché siamo costruiti nostro malgrado per dare molto più valore a ciò che viene dopo una sfida, una scalata, un “viaggio dell’eroe”, e tendiamo a sottostimare il valore di tutto ciò che è facilmente alla nostra portata. Infine, potrebbe esserci in gran parte un qualche tipo di “script sotterrano” ad agire, una di quelle strutture così radicate nell’impostazione filosofica della nostra società che abbiamo completamente smesso di prestarci attenzione. Se ci si pensa in fondo, è dai tempi di Platone, passando per la tradizione Cristiana fino ad arrivare a Cartesio, con la separazione tra res cogitans e res extensa, che tendiamo a distinguere tra anima e corpo, tra mente e carne, come se fossero due sistemi distinti e separati, dotati di una qualche relazione sì ma perfettamente concepibili e analizzabili in modo separato. Ed è estremamente probabile che anche i più laici e razionali tra voi abbiano almeno in parte assimilato questa stessa convinzione, questo principio irrinunciabile secondo cui i problemi del corpo debbano appartenere al corpo e quelli della mente alla mente, con possibilità di interazione minime o nulle.

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“Può risultare incredibilmente facile e seducente l’idea di cominciare a cercare la risposta che ci serve nelle teorie astratte di una filosofia di vita; altrettanto difficile farlo in qualcosa di banale come un’ora di sonno in più. Tanto più se crediamo che i “problemi dell’anima” siano distinti da quelli della carne.”


Tutto ciò ci serve inoltre alla perfezione l’assist con cui imbastire la “critica del giorno” a certe correnti tossiche di crescita personale: troppi libri, corsi, video, vertono infatti attorno all’essere sempre al massimo, al sacrificare ogni momento di qualità, a un trasformarci in macchine ultraproduttive. Troppi messaggi sullo stile di “rivoluziona la tua vita” vertono interamente attorno a uno svegliarsi alle 4.30, correre per tre ore, lavorare fino alle 21.00, crollare a letto, ripetere fino alla morte. Essere instancabili, inarrestabili, indistruttibili. E o fai così e diventi come Jeff Bezos, Steve Jobs ed Elon Musk insieme, oppure sei un fallimento. Tutte sciocchezze, letterali “sciacallate” che fanno leva sull’almeno parziale insicurezza che ognuno ha nell’abitare la propria pelle. Tutti concetti, che ancora di più oggi, navigano le finzioni Insta-Tik-tok secondo cui gli altri, a differenza nostra, la propria pelle la abitano senza mai provare alcun disagio. Nulla è più facile da vendere, d’altronde, di ciò che prova a stuzzicare quel nostro legittimo desiderio di essere “sempre qualcosa di più”. 
La confortante verità, però, in tutto questo, è che effettivamente possiamo essere molto di più, e possiamo farlo anche senza necessariamente distruggere il nostro corpo in questa insostenibile cultura dell’iperefficienza tossica. Anzi, il bello è che un’esistenza “di qualità” può essere trovata proprio rifiutandoci di seguire queste indicazioni. Ricercando piuttosto abitudini, pratiche e convinzioni che contemplino prima di ogni altra cosa una cura sapiente, profonda, prolungata del nostro “livello hardware”. Sebbene sia infatti giusto in parte anche “allenare” questo nostro aspetto con dosi di “micro-stress calcolato” che ci aiutino a capire fin dove possiamo arrivare, è chiaro che in parallelo ci serve un lavoro diverso; qualcosa che il contempli il prendercene cura come se fosse un’opera, una scultura cui lavoriamo dai decenni. Concedendoci, sì, anche di procrastinare, di passare un’ora in più sul divano, di rilassarci quando serve, di fare qualcosa di semplice e stupido se ci va. Il tutto purché questi siano dei necessari, consapevoli, atti di cura di sé e non un decidere di abbandonare e abbandonarsi completamente. E sono fermamente convinto che nella ricerca di questo delicato equilibrio ci sia l’unico vero modo per dare alla nostra biologia il modo di produrre “emozioni e pensieri di qualità” in modo prolungato, continuo e sostenibile.

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“Siamo circondati da stimoli che hanno creato in noi la percezione che o siamo la versione max performance di noi stessi o siamo dei fallimenti. Ed è ora di rigettare questo principio e di prenderci semplicemente più cura di noi stessi.”


Quella frase di poche righe fa sulla necessità di dosi di “micro-stress calcolato” ci dà infine l’assist per quello che potrebbe essere “uno dei concetti più pericolosi” di cui potremo scrivere, visto che siamo sicuri che potrebbe essere facilmente trasformato in una guru-sciocchezza: quello tra sistema hardware e software, più che una comunicazione unidirezionale è un equilibrio basato su un feedback continuo. Ossia, così come la nostra fisiologia può profondamente influenzare le nostre storie è anche vero, almeno in parte, il contrario, ossia che le nostre credenze e aspettative possono modulare le nostre reazioni fisiologiche. Un esempio è nel modo di reagire proprio allo stress e a certi eventi traumatici: più la nostra esperienza ci porta a catalogare quello stress, quei potenziali traumi, come eventi di crescita, e più le nostre reazioni cerebrali e fisiologiche vireranno verso il generare reazioni adattive. E ci sono tantissimi altri studi che parrebbero confermare il modo in cui aspettative e convinzioni alterano le risposte del nostro corpo. Per esempio in quello condotto da Crum e Langer nel 2011 dei partecipanti divisi in due gruppi partecipanti hanno consumato un frullato etichettato come "indulgente" o "salutare", anche se in realtà i frullati erano identici; e i risultati hanno mostrato che il livello di grelina, un ormone che segnala la sazietà, diminuiva significativamente solo quando i partecipanti credevano di aver consumato il frullato “indulgente”. Oppure, si pensi all’ormai ben documentato “effetto placebo”, in cui dei pazienti percepiscono un miglioramento nella propria condizione dopo aver ricevuto un trattamento completamente inerte. Uno studio del 2004 condotto da Ted J. Kaptchuk, per esempio, ha dimostrato che i partecipanti trattati con una semplice pillola di zucchero hanno rilevato miglioramenti significativi in termini di “sindrome da intestino irritabile”, rispetto a quelli che non avevano ricevuto alcun trattamento. 
Questo vuol dire che ci basterà qualche auto-affermazione convincente per curare malattie, rigenerare tessuti e magari trasformare in super-sana quella porzione giga di patatine fritte in un olio risalente al 1975? Ovviamente no (è proprio questa la “pericolosa deriva antiscientifica” da evitare a tutti i costi), e rimane fondamentale provare a metabolizzare questo concetto come: esperienze, convinzioni ed approcci concettuali possono modificare e generare parte del risultato fisiologico di risposta a qualcosa. E questo non equivale a rimpiazzarlo completamente.
Questo principio ci invita innanzitutto a un vivere attivo e consapevole, in cui ci buttiamo alle spalle una volta e per tutte ogni rigida separazione tra mente e corpo, e cominciamo così a ragionare in termini di “psico-soma”, di sistema unico mente-corpo. A delineare un percorso in cui, alla giusta cura per il nostro hardware, affianchiamo la produzione e la manutenzione di un “software di qualità superiore”, implementato con il codice del giusto senso critico, di un continuo desiderio di imparare e della fruizione di materiale informativo di alta qualità. Ma soprattutto, tutto quanto detto finora ci può spingere a lavorare per maturare convinzioni “cautamente positive” ogniqualvolta ciò si faccia necessario, cementate sull’ “oggettivo potere biologico” del nostro “psico-soma” nel trarre massima crescita, sviluppo e nutrimento, da ogni “forza contraria” sulla via.

Danilo Lapegna
Kintsugi Project Founder e CEO

“Ricercare un’esistenza di qualità richiede un approccio olistico, “panarmonico”, in cui pari attenzione va data alla realtà fisiologica del nostro corpo, a una consapevolezza attiva del presente, e al cementare l’insieme di credenze necessario per riconvertire in attivazione fisiologica positiva anche le sfide più dure.”

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